Filosofia del Cinema

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Decentramenti identitari

In filosofia del cinema on 23 febbraio 2014 at 09:33

Cinefilab

Nel desolante panorama di un liceo francese, Germain (Fabrice Luchini), docente di lettere, incontra Claude (Ernst Umhauer), uno studente fuori dal comune per la sua abilità nella scrittura. Nelle potenzialità insite nello sguardo del suo giovane interlocutore, il professore individua un motivo di incoraggiamento rispetto ad un clima scolastico disarmante. I temi che Claude consegna al professore possiedono un tale grado di vivacità che Germain non esita a farli leggere alla moglie Jeanne (Kristin Scott Thomas). È proprio Jeanne a cogliere negli scritti dello studente un elemento di appena accennata morbosità. I componimenti di Claude sono, infatti, troppo realistici ed in un certo senso invasivi nei confronti delle abitudini familiari di un compagno di classe, la cui casa è stata scelta come realtà da raccontare di volta in volta alla luce dei differenti registri stilistici suggeriti dallo stesso professore. Con il dipanarsi della storia traposta in immagini nel film “Nella…

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Scegliere il proprio destino

In filosofia del cinema on 23 febbraio 2014 at 09:32

Cinefilab

tutto-sua-madre

“Io e Amandine abbiamo deciso di sposarci”, annuncia Guillaume alla madre, ricevendo in cambio una domanda, pronunciata con glaciale e non celato scetticismo: “Con chi?”. Il giovane Guillaume e la madre sono i principali protagonisti del film “Tutto sua madre” (titolo originale: “Les Garçons et Guillaume, à table!”) che sta spopolando in Francia, avendo raccolto due milioni di spettatori e sette milioni di euro in due settimane. Il film, che ha vinto a Cannes nella sezione Quinzane, è un adattamento cinematografico dello spettacolo che Guillaume Gallienne ha tenuto in teatro, vincendo il premio Molière 2010 come rivelazione teatrale maschile. Una prima particolarità del film sta nel fatto che i due personaggi principali sono interpretati proprio da Guillaume Gallienne, attore della prestigiosa Comédie-Française, che del film è anche regista.

La seconda particolarità consiste nella difficoltà di ascrivere il film ad un genere specifico. Per intendersi, diciamo che si tratta di una commedia, sebbene…

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Il Barbonaggio: sperimentazioni teatrali e filmiche

In filosofia del cinema on 23 febbraio 2014 at 09:29

Ogni volta che parlo con me Chiarello Q

“Qualcuno ha sentito?” è la domanda che, proferita da un attore su un palcoscenico pressoché vuoto, riecheggia in un teatro deserto. L’uomo, vestito con un lungo impermeabile consunto, i capelli e la barba lunghi, è in realtà Ippolito Chiarello e quanto appena descritto costituisce la scena finale del film “Ogni volta che parlo con me”  che lo stesso artista ha firmato insieme a Matteo Greco. Si tratta di un mediometraggio in cui si racconta una delle più interessanti vicende artistiche degli ultimi anni, il cosiddetto “barbonaggio teatrale”. Già nel 2008 Chiarello portò in scena uno spettacolo basato sul libro di Maksim Cristan “Fanculopensiero”. La tiepida accoglienza avuta soprattutto da parte del “teatro ufficiale” indusse l’artista salentino ad escogitare un nuovo percorso artistico, frammentando lo spettacolo e proponendolo in luoghi canonicamente poco ortodossi (distributori di benzina, case, supermercati). In seguito a quella spinta propulsiva, lo spettacolo approdò in 120 città italiane e nelle principali capitali europee. Il film, che verrà presentato il prossimo 26 Febbraio a Calimera, è appunto il resoconto di questo artistico peregrinare, ma può essere considerato esso stesso una forma di sperimentazione. Vediamo dunque il barbone-Chiarello giungere nelle diverse città, allestire il suo precario palchetto e cercare di volta in volta una forma inedita di contatto con un pubblico almeno all’inizio guardingo e diffidente. Anche da questo punto di vista, il film ricorda l’atteggiamento che molti spettatori ebbero agli inizi del secolo scorso di fronte ai film delle avanguardie artistiche. Quei filmati  in cui si dava spazio a sperimentazioni visive o si mostravano frammenti disarticolati della realtà (si pensi a “Un cane andaluso” del 1929 di Luis Buñuel e Salvador Dalí) suscitarono – e non poteva essere altrimenti – reazioni contrastanti. In effetti, quando la forma si fa carico di esprimere una sostanza che propone di ritornare alle cose stesse, recuperando una ingenuità dello sguardo in grado di ripristinare i coefficienti originari degli esseri, allora l’estraneazione e lo sgomento indotti nello spettatore comune non costituiscono un difetto, ma una nota di pregio. Greco e Chiarello avrebbero addirittura potuto osare un affidamento più fiducioso alla naturale eloquenza espressiva del mezzo filmico cui non necessariamente occorre il continuo ricorso ad una voce fuori campo.

“Ogni volta che parlo con me” è un’opera che convintamente attraversa il territorio che dall’estetica conduce all’etica. In fondo, chiedere metaforicamente se “qualcuno ha sentito?” significa coraggiosamente interrogarsi sull’efficacia di forme di espressione non convenzionali (ed il barbonaggio di sicuro lo è) in relazione alla loro capacità di coinvolgere lo spettatore, destinatario di un messaggio tanto palingenetico quanto salvifico.

Sono maturi i tempi perché a quella domanda in molti possano rispondere positivamente?

[Pubblicato nella rubrica PUNCTUM del Nuovo Quotidiano di Puglia del 23 Febbraio 2014].

Her di Spike Jonze

In filosofia del cinema on 17 febbraio 2014 at 09:22

locandina her lei

Una interessante recensione del film “Her” di Spike Jonze.

http://cinemagnolie.blogspot.it/2013/11/festival-di-roma-2013-la-recensione-di.html

 

 

In arrivo…

In filosofia del cinema on 16 febbraio 2014 at 16:03

 

Scegliere il proprio destino

In filosofia del cinema on 16 febbraio 2014 at 13:52

tutto-sua-madre

“Io e Amandine abbiamo deciso di sposarci”, annuncia Guillaume alla madre, ricevendo in cambio una domanda, pronunciata con glaciale e non celato scetticismo: “Con chi?”. Il giovane Guillaume e la madre sono i principali protagonisti del film “Tutto sua madre” (titolo originale: “Les Garçons et Guillaume, à table!”) che sta spopolando in Francia, avendo raccolto due milioni di spettatori e sette milioni di euro in due settimane. Il film, che ha vinto a Cannes nella sezione Quinzane, è un adattamento cinematografico dello spettacolo che Guillaume Gallienne ha tenuto in teatro, vincendo il premio Molière 2010 come rivelazione teatrale maschile. Una prima particolarità del film sta nel fatto che i due personaggi principali sono interpretati proprio da Guillaume Gallienne, attore della prestigiosa Comédie-Française, che del film è anche regista.

La seconda particolarità consiste nella difficoltà di ascrivere il film ad un genere specifico. Per intendersi, diciamo che si tratta di una commedia, sebbene con tali e tante modulazioni da assomigliare ad un film tragico. Lo stile del film si adatta in effetti alla storia tragicomica che intende rappresentare, la vicenda di Guillaume che, fin da bambino, è stato considerato un omosessuale, soprattutto dalla madre. Egli è sistematicamente destinatario di definizioni che ne minano l’identità: “Sei talmente omosessuale da essere diventato lesbica” è una delle frasi più gentili che gli sono rivolte. In questo modo, il ragazzo è divenuto adulto convinto a tal punto di essere una donna da ritenere normale cercare di imitare la madre, nella voce, nei gesti, nella postura. Il patologico legame tra i due si alimenta dalle gratificazioni che il ragazzo riceve per il fatto di essere dipendente dalla donna. Il regista mostra il tentativo di Guillaume di realizzare il destino a lui riservato. Lo vediamo confrontarsi inutilmente con una schiera di psicoterapeuti, sostenere la visita militare sotto lo sguardo divertito degli ufficiali, tentare un goffo approccio gay in una discoteca. Tutto cambia, però, quando Guillaume incontra la giovane Amandine di cui si innamorerà, ricambiato. “Tutto sua madre” è un film sul senso della diversità, sul modo in cui è facile attribuire agli altri stereotipi o pregiudizi che nascono da una distorta interpretazione del nostro stare al mondo. Dal punto di vista di Guillaume, il film è anche un contemporaneo ritratto dell’inettitudine, del disagio esistenziale che si può provare fino a quando non si sia trovata la propria esatta collocazione nel mondo. L’amarezza del film risiede nella verità che scoperchia: la genitorialità non è – duole dirlo – sempre e comunque l’orizzonte paradisiaco cui si è naturalmente portati a credere.

Aveva dunque ragione Kafka quando nei suoi “Diari” scriveva: “I genitori che si aspettano gratitudine dai figli (e c’è persino chi la pretende) sono come usurai: rischiano volentieri il capitale pur di incassare gli interessi”.

[Pubblicato sul Nuovo Quotidiano di Puglia del 16 Febbraio 2014].

Resistere al precariato

In filosofia del cinema on 9 febbraio 2014 at 11:00

Smetto-quando-voglioPietro Zinni (Edoardo  Leo) è un neurobiologo universitario precario che a 37 anni si vede negata la stabilizzazione a lungo promessa. Una vita, la sua, già abbondantemente liquida rischia di diventare del tutto evanescente. Stressato dalla fidanzata, Giulia (Valeria Solarino), psicologa di professione, ma del tutto incapace di immedesimarsi nella situazione del compagno, lo vediamo dibattersi per ottenere un finanziamento di fronte ad una autorevole commissione internazionale e rimanere incredulo perché un collega meno brillante ha ottenuto l’agognato posto a tempo indeterminato. Incredulo, di fronte all’alternativa di veder incanalata la propria eccellenza in lavori da settecento euro al mese, Pietro decide di ribellarsi. Il suo piano prevede di fare appello ad altri suoi colleghi precari per formare una banda di spacciatori di una nuova droga “legale”. La principale sostanza chimica che la compone, infatti, non risulta ancora inserita nell’elenco ministeriale delle sostanze proibite. Il film “Smetto quando voglio” del giovane esordiente Sidney Sibilia ha il merito di porre al centro dell’attenzione un fenomeno drammaticamente attuale nella forma di una commedia. Di fronte alle azioni dell’improbabile banda criminale, in sala si ride molto, aiutati anche da un montaggio veloce, da una gestione dei colori che li satura, rendendo gli ambienti rappresentati analoghi a quelli di una metropoli americana (molto bravo Vladan  Radovic, direttore della fotografia).

Alla fine della visione, gli spettatori applaudono convintamente. Si può escludere che l’applauso risponda ad una sorta di impulso liberatorio? Francamente, no.

Se è vero, infatti, che la storia è godibile, non è meno vero che essa solleva un problema cruciale non solo per le sorti dei personaggi implicati, ma più in generale per il nostro Paese in cui lo scempio del precariato intellettuale è sistematicamente perpetrato. Detto in termini volutamente generali, se i ricercatori studiano in anticipo le soluzioni ai problemi comuni, non agevolare o, peggio, ostacolare il loro lavoro significa rinunciare ad un futuro migliore per tutti. Chi ha interesse a che questo avvenga? Le responsabilità possono essere equamente ripartite tra le forze politiche di tutti gli schieramenti?

Per aver saputo individuare l’esatta chiave per affrontare un argomento delicato, del film di Sibilia è consigliata la visione. Possono dunque essere trascurate alcune cadute di tensione che si avvertono ad un certo punto della trama, mentre va segnalato che la scena della rapina in farmacia possiede i tempi perfetti della migliore comicità, venendo in qualche modo ad assomigliare alle “slapstick comedies”, risalenti al cinema di Mack Sennett, le cosiddette comiche violente, in cui tra schiaffi, calci e inseguimenti, prevaleva il linguaggio del corpo e il sincronismo tra gli attori.

In “Smetto quando voglio” si ride molto. Ma si pensa, anche. E questo, soprattutto oggi, non sembra poco.

[Pubblicato nella rubrica Punctum del Nuovo Quotidiano di Puglia del 9 Febbraio 2014]

La perfidia delle relazioni intrafamiliari

In filosofia del cinema on 2 febbraio 2014 at 12:11

osage_county

La voce di un uomo che, solitario, si allontana in barca dalla riva di un lago ci ricorda, citando T.S. Eliot, che “La vita è molto lunga”, introducendoci all’interno de “I segreti di Osage County” di John Wells. Il regista porta sul grande schermo “Agosto, foto di famiglia” di Tracy Letts, un’opera teatrale nonché commedia, già premio Pulitzer, pubblicata in Italia da BUR Rizzoli.

agosto

Le terre aride e desolate dell’Oklahoma non sono semplicemente una cornice in questo film. Fuori tutto sembra fermo, placido, silente; dentro, nella casa abitata dagli Weston, ogni cosa partecipa di un’energia satura di aggressività, apparentemente tenuta a freno da una consunta liturgia degli affetti. Fin dalle prime scene, si impone il personaggio di Violet (Meryl Streep), alla quale, in circostanze che si chiariranno progressivamente, è venuto a mancare il marito Beverly (Sam Shepard) cui appartiene la voce ascoltata all’inizio. In seguito alla scomparsa dell’uomo, le tre figlie di Violet faranno ritorno a casa, trovando una madre ammalata di cancro ed imbottita di antidolorifici. Tale debolezza è solo parzialmente in grado di fiaccare l’indole della donna, che nei momenti di lucidità dimostra, con autocompiaciuta perfidia, di aver conservato uno sguardo vigile sull’esiste

nte.

Nell’atmosfera asfissiante dell’estate del Midwest, il ritrovarsi delle donne innescherà un graduale contendere, fondato sull’implicita rivendicazione di torti subiti, diritti violati, segreti troppo a lungo celati. Non a caso si può parlare di dramma familiare. In spregio ad ogni imperante ideologia favorevole alla equiparazione tra famiglia tout court e paradiso terrestre, il film rappresenta uno spietato ritratto dell’impossibile convivenza tra componenti di una famiglia tradizionalmente intesa.

“I segreti di Osage County” è intriso della sostanza che intende portare in scena. È dunque un lungometraggio claustrofobico, come la casa dalle tende perennemente chiuse in cui la vicenda si svolge. Esso si fonda principalmente sull’interpretazione di Meryl Streep e Julia Roberts che, per i rispettivi ruoli, sono candidate agli Oscar. Inoltre, va ricordato che il film può contare su un cast di assoluta eccellenza (Julianne Nicholson, Juliette Lewis, Mattie Fae Aiken, Dermot  Mulroney, Ewan McGregor,  oltre al co-produttore George Clooney).

L’impressione generale è di trovarsi di fronte ad un grande film, per quanto non una novità assoluta. Solo per fare un esempio tra i molti possibili, la scena del pranzo di famiglia usata come luogo di una rivelazione devastante era già stata usata in “Festen”, film del 1998 di Thomas Vinterberg. Più lo sguardo del regista ci porta dentro la casa degli Wenston, più cogliamo in quei litigi una dimensione universale, riferibile all’inevitabile declinare di ogni umana esistenza. Ritornano così in mente le parole di Eliot: “La vita è molto lunga. / Tra il desiderio / E lo spasmo / Tra la potenza / E l’esistenza / Tra l’essenza / E la discesa / Cade l’Ombra”.

 

[Pubblicato nella Rubrica Punctum del Nuovo Quotidiano di Puglia del 2 Febbraio 2014]