Filosofia del Cinema

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Dal frammento al senso del tutto

In filosofia del cinema on 22 giugno 2014 at 15:08

rompicapo a new yorkLo stile di visualizzazione delle immagini che fanno da sfondo ai lunghi titoli di testa del film “Rompicapo a New York” del regista Cédric Klapisch annuncia il tema del film. Sullo sfondo nero si aprono dinamicamente finestre dal taglio geometrico e dimensione variabile da cui traspare il protagonista, mai visualizzato nella sua interezza, ma sempre per frammenti.

Xavier (Romain Duris), scrittore quarantenne dall’aspetto perennemente imbronciato, ha una vita complicata, difficilmente inquadrabile: una moglie, Wendy (Kelly Reilly, che nel crudele doppiaggio sembra la sorella di Stanlio e Ollio) che ha deciso di lasciarlo per trasferirsi a New York. Per non perdere la possibilità di vedere i figli, Xavier decide di partire per gli Stati Uniti dove incontrerà la sua amica lesbica Isabelle (Cécile De France) che, dal seme da lui donato, ha nel frattempo avuto un bambino e l’ex fidanzata Martine (Audrey Tautou). Come se non bastasse, per ottenere il diritto di risiedere a New York, Xavier si troverà implicato in un matrimonio bianco con una ragazza cinese. Il regista Cédric Klapisch chiude la trilogia iniziata con “L’appartamento spagnolo” e “Bambole russe”, ripresentando gli intrichi relazionali dei protagonisti appena menzionati alle prese col tentativo di ritrovare il senso della vita, partendo dai frammenti in cui sono immersi. In effetti, unità e frammentarietà sono i due poli in cui la loro vita si dibatte. Dopo due ore di visione, arriverà l’immancabile happy end che sembra conciliare gli elementi dispersi. Tuttavia, tale conciliazione è solamente apparente, se si segue la scia indicata dalla domanda che l’editore rivolge a Xavier proprio alla fine del film “Quello che stai dicendo si riferisce alla vita o al romanzo che hai scritto?”.

Quella domanda consegna allo spettatore un finale aperto, fondato sulla constatazione che se vita e  romanzo sono considerati ugualmente plausibili come sfondi degli eventi narrati, allora proprio in quella equivalenza noi scorgiamo un elemento extradiegetico, riferibile non più soltanto a Xavier o al film, ma a qualcosa di più in generale.

In effetti, una vita ridotta in frammenti che diventa oggetto di un romanzo annuncia un mutamento dell’idea stessa di rappresentazione: ciò che è considerato rilevante e degno di essere raccontato non deve più avere i tratti dell’insieme compiuto. Anche ciò che faticosamente cerca ancora la ragione del suo stesso cercare può assurgere al livello di ciò che è notabile. È così che una vita come quella di Xavier viene ammessa al dominio di ciò di cui si può parlare. Il frammento, dunque, non più elemento marginale sulla via del senso compiuto: che cosa è, del resto, la “Fenomenologia dello Spirito” di Hegel, citata nel film, se non il percorso che dal frammento porta al senso del tutto?

In conclusione, per Xavier e forse per ciascuno di noi sembrano vere le parole scritta da Gibran: “Solo ieri mi pensavo come un frammento che tremola impazzito nella sfera della vita. Ora so d’essere io la sfera, e che la vita tutta si muove dentro di me in ritmici frammenti”.

 

[Pubblicato nella Rubrica Punctum del Nuovo Quotidiano di Puglia del 22 Giugno 2014]

Sulla teoria del romanzo:

About Elly di Esghar Farhadi: rappresentazione e divergenza della realtà

In filosofia del cinema on 6 settembre 2010 at 10:02

«Il mondo è la mia rappresentazione»: ecco una verità che vale in rapporto a ciascun essere vivente e conoscente, amche l’uomo soltanto è capace di accoglierla nella sua coscienza riflessa e astratta: e quando egli fa veramente questo, la mediazione filosofica è penetrata in lui. Diventa allora per lui chiaro e certo, che egli non conosce né il sole né la terra, ma sempre soltanto un occhio, che vede un sole, una mano, che sente una terra; che il mondo che lo circonda, non esiste se non come rappresentazione, vale a dire sempre soltanto in rapporto ad un altro, a colui che lo rappresenta, il quale è lui stesso». Sono parole di Schopenhauer, mediante cui si dà conto del fatto che la realtà, ciò che pensiamo esistere indipendentemente da tutto, è il frutto della composizione delle rappresentazioni che abbiamo di essa.

Nella stragrande maggioranza dei casi, succede invece di condurre le nostre vite all’interno di una generale sintonia tra rappresentazioni e realtà. Una sintonia, simile all’appiattimento, che non consente quella problematizzazione del rapporto con la realtà, che secondo Schopenhauer, costituisce l’avvio dell’atteggiamento critico.

Che cosa accadrebbe se, all’improvviso, quella sintonia venisse meno o si tramutasse in distonia?

About Elly del regista iraniano Asghar Farhadi permette di spingersi oltre quella frontiera in cui ciò che è consueto ed abituale diventa improvvisamente estraneo ed irriconoscibile. La divergenza della realtà significa che ciò che pensavamo esistere in un certo modo si rivela essere in modo diverso. È esattamente quello che succede ai protagonisti del film in una spensierata giornata al mare quando devono fare i conti con la improvvisa scomparsa di una di loro, Elly appunto. Da quel momento si intrecciano rappresentazioni non più coincidenti di una realtà che, proprio per questo, è addirittura difficile inquadrare. Il coefficiente di realtà è stravolto, la solidità di ciò che pensavamo acquisito ed indiscutibile è ormai irrimediabilmente perso e sembra  di sprofondare nella sabbia, come nella eloquente sequenza finale. Nei momenti più angoscianti del film il regista fa un uso sapiente della camera a mano, quasi a sottolineare la mancanza di un piano stabile i visione. Anche la violenza che in alcuni momenti del film sporge sulle azioni umane, più che essere – come è stato scritto – la cifra di una condizione di inferiorità della donna nella cultura iraniana, a me sembra essere la conseguenza di un radicale disorientamento che colpisce i protagonisti che, in tal modo, e certo non in modo giustificabile, cercano di restaurare antiche sicurezze gerarchiche.

Non si può negare, anche indipendentemente dagli esiti del film, che un tale decentramento possa essere in grado di portare frutti positivi. Se un peccato d’origine ricade sull’uomo contemporaneo è forse quell’assoluto radicamento che non gli consente di immaginare altri mondi possibili. Da questo punto di vista, decentrarsi non può che avere effetti positivi. Nel XII secolo Ugo di San Vittore formulava nel modo seguente l’ideale di un uomo abituato alla differenza dei mondi: «L’ uomo che trova dolce la sua patria non è che un tenero principiante; colui per il quale ogni terra è come la propria è già un uomo forte; ma solo è perfetto colui per il quale tutto il mondo non è che un paese straniero».