Lo stile di visualizzazione delle immagini che fanno da sfondo ai lunghi titoli di testa del film “Rompicapo a New York” del regista Cédric Klapisch annuncia il tema del film. Sullo sfondo nero si aprono dinamicamente finestre dal taglio geometrico e dimensione variabile da cui traspare il protagonista, mai visualizzato nella sua interezza, ma sempre per frammenti.
Xavier (Romain Duris), scrittore quarantenne dall’aspetto perennemente imbronciato, ha una vita complicata, difficilmente inquadrabile: una moglie, Wendy (Kelly Reilly, che nel crudele doppiaggio sembra la sorella di Stanlio e Ollio) che ha deciso di lasciarlo per trasferirsi a New York. Per non perdere la possibilità di vedere i figli, Xavier decide di partire per gli Stati Uniti dove incontrerà la sua amica lesbica Isabelle (Cécile De France) che, dal seme da lui donato, ha nel frattempo avuto un bambino e l’ex fidanzata Martine (Audrey Tautou). Come se non bastasse, per ottenere il diritto di risiedere a New York, Xavier si troverà implicato in un matrimonio bianco con una ragazza cinese. Il regista Cédric Klapisch chiude la trilogia iniziata con “L’appartamento spagnolo” e “Bambole russe”, ripresentando gli intrichi relazionali dei protagonisti appena menzionati alle prese col tentativo di ritrovare il senso della vita, partendo dai frammenti in cui sono immersi. In effetti, unità e frammentarietà sono i due poli in cui la loro vita si dibatte. Dopo due ore di visione, arriverà l’immancabile happy end che sembra conciliare gli elementi dispersi. Tuttavia, tale conciliazione è solamente apparente, se si segue la scia indicata dalla domanda che l’editore rivolge a Xavier proprio alla fine del film “Quello che stai dicendo si riferisce alla vita o al romanzo che hai scritto?”.
Quella domanda consegna allo spettatore un finale aperto, fondato sulla constatazione che se vita e romanzo sono considerati ugualmente plausibili come sfondi degli eventi narrati, allora proprio in quella equivalenza noi scorgiamo un elemento extradiegetico, riferibile non più soltanto a Xavier o al film, ma a qualcosa di più in generale.
In effetti, una vita ridotta in frammenti che diventa oggetto di un romanzo annuncia un mutamento dell’idea stessa di rappresentazione: ciò che è considerato rilevante e degno di essere raccontato non deve più avere i tratti dell’insieme compiuto. Anche ciò che faticosamente cerca ancora la ragione del suo stesso cercare può assurgere al livello di ciò che è notabile. È così che una vita come quella di Xavier viene ammessa al dominio di ciò di cui si può parlare. Il frammento, dunque, non più elemento marginale sulla via del senso compiuto: che cosa è, del resto, la “Fenomenologia dello Spirito” di Hegel, citata nel film, se non il percorso che dal frammento porta al senso del tutto?
In conclusione, per Xavier e forse per ciascuno di noi sembrano vere le parole scritta da Gibran: “Solo ieri mi pensavo come un frammento che tremola impazzito nella sfera della vita. Ora so d’essere io la sfera, e che la vita tutta si muove dentro di me in ritmici frammenti”.
[Pubblicato nella Rubrica Punctum del Nuovo Quotidiano di Puglia del 22 Giugno 2014]
Sulla teoria del romanzo:
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