Filosofia del Cinema

Archive for aprile 2014|Monthly archive page

Fedeltà al sapore

In filosofia del cinema on 28 aprile 2014 at 19:38

Gigolò per caso

‘Fedeltà al sapore’ è una locuzione che probabilmente rinvierebbe in prima istanza ad una qualche specifica vocazione culinaria, piuttosto di moda di questi tempi. In realtà, in un celebre discorso al Collège de France, Roland Barthes si riferiva proprio al sapore come sinonimo più significativo della saggezza, quel sapersi orientare tra valori, a volte contrastanti, per conseguire il senso, senza il quale ogni esistenza appare insipida. La fedeltà al sapore, nel senso barthesiano, rappresenta un’interessante chiave ermeneutica per interpretare il film di John Turturro “Gigolò per caso” in cui un libraio, Murray (Woody Allen), convince il suo amico Fioravanti (John Turturro) a diventare un gigolò.

In corrispondenza dei tre principali protagonisti, la pellicola propone altrettanti modelli di condotta. Il primo modello è incarnato proprio da Murray per il quale non sembrano esistere limiti all’azione che un uomo possa compiere. Il suo imperativo di riferimento potrebbe essere “tutto è possibile, basta volerlo”. Se le condizioni lo richiedono, rientra nell’ordine naturale delle cose proporre ad un amico di diventare un gigolò, dividendosi equamente i compensi. La trovata fa sorridere, ma lascia anche riflettere. “Dov’è il problema?”, direbbe Murray. Una scelta, compiuta da adulti consenzienti, non ha altra norma che se stessa.

Il secondo modello è offerto da Avigal (Vanessa Paradis), nel ruolo di una vedova alle prese con una gestione del lutto conforme ai rigidi dettami della comunità ebraica ortodossa. Per la donna è solo all’interno di quel legame comunitario che il senso può essere cercato, anche a costo di privarsi di ciò che, collocandosi al di là della comunità, sembra vitale ed irrinunciabile. Insomma, «Nulla salus, extra ecclesiam». Il suo imperativo di condotta potrebbe essere “il senso, nell’appartenenza”.

Infine, il personaggio di Fioravanti che, indotto dalle necessità, accetta la proposta di Murray e, progressivamente, sembra riconoscersi in essa. Ad un certo punto, però, Fioravanti diventa testimone dell’esistenza di un valore – il suo amore per Avigal – di un ordine tale da scardinare ogni fragile equilibrio precedentemente raggiunto. È in nome di questo valore che l’uomo sarà pronto a cambiare vita. L’imperativo di Fioravanti potrebbe essere “Non tutto ha lo stesso valore. Non tutto è possibile”.

Nel finale, “Gigolò per caso” suggerisce anche un’ulteriore prospettiva, riassumibile nella domanda: quanto si può essere fedeli ad una scelta, anche la più decisiva che un uomo possa compiere? Lo sguardo enigmatico di Fioravanti nell’ultimo fotogramma del film allude alla vertigine dell’incertezza dello scegliere anche quando tutto sembra ormai definito.

Generalmente, le scelte di un uomo sono orientate al sapore, cioè al senso. A volte, tuttavia, l’infedeltà al sapore sembra migliore del sapore stesso.

In bilico tra realtà e finzione

In filosofia del cinema on 20 aprile 2014 at 09:06

Nel 2002, in Francia, il regista Nicolas Philibert realizzò il documentario “Essere e avere”, un delicato ritratto della vita quotidiana della minuscola scuola francese di Auvergne, un piccolo di villaggio di montagna. Bambini di diverse età si confrontavano con gli insegnamenti di un maestro unico, prossimo alla pensione. Non era un’opera di finzione, ma lo sembrava, mantenendo al contempo immutato il realismo delle situazioni. Philibert spiegava che per ottenere questo risultato era stato necessario abituare lentamente i ragazzi alla presenza della macchina da presa in aula. Alla fine, dopo mesi di avviamento, quella presenza “estranea”, insieme a quella del regista e della troupe, era diventata familiare per tutti i bambini. Ancora oggi, “Essere e avere” mantiene intatti spontaneità e realismo.

Un anno dopo, nel 2003, Leonardo Di Costanzo, regista partenopeo, realizzò “A scuola”, un documentario girato a Napoli, in una scuola media del rione Pazziano. Si trattava di una efficace testimonianza del lavoro dell’insegnante in un contesto in cui è praticamente impossibile fare quel genere di lavoro.

I due riferimenti appena citati possono essere richiamati quali antesignani dell’opera di Daniele Gaglianone, “La mia classe”, nelle sale italiane in questi giorni. Si tratta di una docufiction, un genere che ibrida la finzione propria del cinema con la rappresentazione realistica del documentario. Valerio Mastandrea recita nel ruolo di un docente di italiano in una classe composta da immigrati. Il regista, la troupe, la stessa macchina da presa sono spesso presenti in scena nel ruolo di comprimari, un espediente che ha l’effetto di portare lo spettatore dentro il farsi del film. Quell’essere in bilico tra realtà e finzione, una caratteristica strutturale del genere di film scelto dal Gaglianone, va incontro ad un inaspettato colpo di scena nel momento in cui ad uno degli studenti non viene più rinnovato il permesso di soggiorno ed è così costretto ad abbandonare il set. L’effetto iniziale è di straniamento, dal momento che non è così semplice orientarsi in ciò che lo schermo mostra. Realtà? Finzione? Una nuova frontiera della rappresentazione del verosimile? È propria questa la specificità del film di Gaglianone. Lasciare lo spettatore con il dubbio che ciò che ha appena visto sia effettivamente la realtà.

In questo invito alla interrogazione, tuttavia, si invera una delle dimensioni più affascinanti della settima arte, che tanto più è fedele a se stessa quanto più pone in dubbio le basi stesse del nostro talvolta scontato rapporto con il mondo. Nella parte centrale e più riuscita del film, ripresi in piano americano, gli immigrati raccontano la propria storia, quando ci riescono. Succede infatti che, non solo per la scarsa conoscenza della lingua, essi non trovino le parole per tradurre ciò che hanno vissuto. Guardando quelle scene, bellissime ed insieme strazianti, torna in mente il verso di Pascoli “il dolore è più dolor, se tace”.

[Pubblicato nella rubrica Punctum del Nuovo Quotidiano di Puglia del 20 Aprile 2014].

 

Il magnanimo e il doppio

In filosofia del cinema on 14 aprile 2014 at 06:46

masquerade“Masquerade” è il titolo internazionale di un film coreano del 2012 diretto da Choo Chang-min, vincitore di numerosi premi in patria e in Asia. Ambientato nella Corea del 16° secolo, ricostruisce gli eventi occorsi in quindici giorni non registrati negli annali del regno, al tempo del re Gwang-hae (1574-1641) interpretato da un bravissimo Lee Byung-hun (attore noto anche per aver recitato in produzioni USA) nel doppio ruolo del re e del suo sosia.

Il re Gwang-hae sospetta un attentato alla propria persona da parte di ignoti oppositori. Per scongiurare il pericolo di un eventuale avvelenamento, egli fa cercare un sosia che lo sostituisca. Il suo fido braccio destro Heo Gyun (Ryoo Seung-ryong) trova in Ha-seon, un commediante e saltimbanco, il suo perfetto sostituto. Ha-seon è in tutto e per tutto smile al re, e sulle prime l’inganno riesce. Tuttavia, il re viene ugualmente avvelenato. Nei giorni sospesi tra la vita e la morte del sovrano, il Primo Segretario decide, in segreto accordo con il Primo Eunuco (Jang Gwang), di sostituirlo pubblicamente con il sosia per non destare sospetti e allo stesso tempo tentare di scoprire i cospiratori. Ha-seon viene così istruito sulle pratiche di governo e sui riti di corte. Dopo un primo momento di comprensibile difficoltà ad adattarsi al ruolo di sovrano, costellato di episodi comici, Ha-seon inizia a imitare in pubblico anche la personalità del sovrano assente. Tuttavia la sua naturale umanità lo porterà ad avere una relazione solidale coi suoi sottoposti, creando un rapporto di reciproca profonda amicizia e devozione nelle persone che gli sono più vicine e che sono deputate alla cura e alla sicurezza della sua persona.

Come in “Kagemusha, l’ombra del guerriero” (1980) di Akira Kurosawa, il sosia chiamato a sostituire il sovrano è un uomo comune, preso dalla strada, che conserva i tratti di umanità e autenticità che si suole attribuire alle persone che affrontano problemi di vita ordinari. Ha-seon porta con sé una parte di ironia e leggerezza, di amore per gli altri e sincero interesse per le loro difficoltà da riuscire a pronunciare le giuste parole che muovono il cuore delle persone che gli sono vicine.

Il film fornisce inoltre la possibilità di una ulteriore chiave di lettura proprio quando celebra le qualità di un regno giusto e magnanimo. Come indicato nella Allegoria del Buon Governo (1338-39), ciclo di affreschi di Ambrogio Lorenzetti, uno stato deve essere innanzitutto retto dalla Giustizia, cui si associano altre virtù quali Sapienza, Concordia, Fortezza, Prudenza, ma anche Magnanimità. Ed è questa la principale caratteristica del falso Gwang-hae. Per Salvatore Natoli, il magnanimo «è colui che punta a cose grandi e impegnandosi per questo produce cose buone e, se forte abbastanza, una sovrabbondanza di bene che ridonda a vantaggio di tutti».

Come in ogni storia sul doppio, ogni aspetto ha il suo contrario e opposto in un altro, ma proprio per questo le due parti si potranno sommare per divenire uno.

(con Roberta Pizzi)

Pubblicato nella rubrica PUNCTUM del Nuovo Quotidiano di Puglia del 13 Aprile 2014.

Nimphomaniac: visionarietà vs. credibilità

In filosofia del cinema on 6 aprile 2014 at 09:48

nymphomaniac joe

La vicenda di Joe (Charlotte Gainsbourg), affetta da dipendenza sessuale compulsiva, al centro di “Nimphomaniac”, ultimo film di Lars von Trier, è stata talmente annunciata a livello promozionale che si può omettere di soffermarsi sulla sinossi del film. Nelle scene iniziali, sotto una pioggia insistente, il regista mostra il corpo esanime ed insanguinato della donna cui si avvicina un uomo dal passo incerto, Seligman (Stellan Skarsgård), il quale, chinatosi, le presta i primi soccorsi, offrendole in seguito ristoro nella sua modesta abitazione. Dal dialogo con l’uomo, si dipana la storia della donna, suddivisa in diversi capitoli.

In realtà, la pubblicizzata scabrosità della vicenda di Joe passa in secondo piano, sacrificata dall’emergere di un aspetto di ordine diverso: l’alterazione del rapporto tra visionarietà e credibilità della storia, due poli entro cui ogni narrazione si dispiega. Visionarietà significa riuscire a far vedere quanto non appartiene all’ordine del visibile. Una sfida per chiunque e, a maggior ragione, per un regista chiamato a lavorare con le immagini in movimento, tracce del visibile. La visionarietà, inoltre, cifra stessa del cinema di von Trier, tanto più è efficace quanto più risulta credibile. Si pensi a ciò che accadeva in “Anthichrist” o, con ancora più efficacia, in “Melancholia”, entrambe vicende irreali, ma non per questo non plausibili.

Che cosa succede invece in “Ninphomaniac”? In un clima di sospensione, Joe racconta la sua storia. Le sue parole, proferite con calma ed incertezza, sono accolte come rivelazioni da Seligman, che subito si rivela abilissimo ad individuare connessioni metaforiche tra la vicenda della donna e la logica delle pesca per il tramite di una ermeneutica dell’esca (sic). La risonanza ittica non allarmi: assurgere ogni stranezza a suprema chiave d’accesso al reale è una delle caratteristiche del cinema di von Trier. Anche in questo caso, tuttavia, il senso del limite è andato perduto. Succede così che un potenziale conturbante intrico di evocazioni esoteriche, saperi non tradizionali, contornati da un’aura di sacralità finiscano con il rivelare la vera sostanza di cui sono in questo caso costituiti: il nulla.

Ognuno potrà giudicare, vedendo il film: ma davvero si può ritenere minimamente plausibile l’esistenza di una qualsivoglia connessione tra i numeri di Fibonacci ed il numero di movimenti pelvici per il cui tramite il primo partner sessuale della protagonista è riuscito ad obliterarne la purezza verginale? Si può credere a tutto, anche a ciò che non sembra reale, ma a condizione che esso sia credibile. Questo non accade, purtroppo, in “Nimphomaniac”. Quando la visionarietà perde il contatto con la fondatezza della realtà, allora siamo dalla parti del non senso, scambiato da taluni per densità metafisica.

Un’unica eccezione: l’intensissima interpretazione – questa sì, credibile – di Uma Thurman nei panni della Signora H, moglie tradita di uno degli amanti della giovane Joe (Stacy Martin).

[Pubblicato sul Nuovo Quotidiano di Puglia del 6 Aprile]

Leggere, oltre ogni speranza

In filosofia del cinema on 4 aprile 2014 at 17:10

storia di una ladra di libriCon il film “Storia di una ladra di libri”, il regista Brian Percival si cimenta nella trasposizione cinematografica del romanzo di Markus Zusak “La bambina che salvava i libri”, tradotto in più di trenta lingue e per quasi sette anni nella classifica dei migliori best seller di tutti i tempi del New York Times. La protagonista è Liesel (Sophie Nélisse), una bambina che in seguito alla fuga dei genitori naturali dalla Germania nazista, viene affidata ad una famiglia tedesca composta da Hans (Geoffrey Rush) e Rosa Hubermann (Emily Watson). Il papà le insegnerà a leggere il suo primo libro, “Il manuale del becchino” che la ragazza ha rubato durante il funerale del fratello. La passione per i libri sarà incentivata dall’incontro con Max Vandenburg (Ben Schnetzer), un ebreo che i suoi genitori adottivi nascondono nello scantinato.

Nei colloqui con Max, la ragazza comprenderà che leggere non è una operazione passiva, ma il modo stesso per riattingere la vita, a maggior ragione quando essa sia negata dalle condizioni storiche. È esattamente quanto capita ai protagonisti, chiamati a vivere nel Novembre 1938 eventi come la “Notte dei cristalli” con il rogo nelle piazze delle città tedesche di milioni di libri. Negata in tal modo la stessa possibilità di leggere, Liesel cercherà nel racconto orale l’anelito alla vita e ai valori. È molto bella la scena del film in cui, nel buio e nel silenzio di un rifugio antiaereo, è proprio la voce della bambina che racconta una favola a tener desta la speranza negli occhi degli adulti presenti. Oltre agli interpreti, di cui va segnalata una grande interpretazione attoriale, il protagonista del film è proprio l’amore salvifico nei confronti dei libri. Per attinenza tematica, dunque, il film potrebbe essere ricollegato a “The Reader” oltre che, naturalmente, al “Diario di Anna Frank”.

La vicenda di donne, uomini e soprattutto bambini, braccati per la propria condizione ed esposti ad ogni umiliazione, scuote e non lascia indifferenti. Il film, tuttavia, fa di tutto per vanificare una tale nobile potenzialità emotiva. In primo luogo, la durata superiore alle due ore risulta eccessiva e tale da generare diverse cadute della tensione narrativa. In secondo luogo, non aiuta l’oggettività della contestualizzazione storica l’inserimento di scene a puro sfondo sentimentalistico: in particolare, la scena in cui Rudy, miglior amico della bambina, muore fra le braccia di costei, pronunciando fatidicamente le parole “ti amo” è tale da mettere a dura prova la pazienza anche dello spettatore più benevolo. In terzo luogo, la scelta di farsi accompagnare nelle scene chiave del film da una voce fuori campo, niente meno che la Morte stessa, se forse può valere per il romanzo, ha indubitabilmente nel film il valore di una superfetazione. Per questa serie di ragioni, “Storia di una ladra di libri” è un film rispetto alla cui diffusione rischia di non giovare troppo la voglia di andare al mare propria delle belle giornate di primavera.

[Pubblicato nella rubrica Punctum del Nuovo Quotidiano di Puglia del 30 Marzo 2014]